Giulia Garofalo, 31 gennaio 2011
L’acquisto e la vendita di sesso non sono cosa rara, non solo in Italia, ma in tutti i Paesi europei, come ad esempio la Germania e il Regno Unito, che pure dall’Italia si distinguono, fra l’altro, per il basso livello di corruzione, l’accountability della classe politica e l’esistenza di meccanismi funzionanti contro la discriminazione e l’harassment delle donne nei luoghi di lavoro – soprattutto se sono luoghi dove si producono valori pubblici, come è il caso dei media e della politica. In altre parole, la prostituzione è cosa distinta dall’intrigo illecito di scambi in cui è immerso il nostro presidente del Consiglio. Nel criticare Silvio Berlusconi, e le persone – donne e uomini – che con lui fanno affari, occorre essere attenti a non confondere i piani di analisi. Uno dei rischi è quello di riprodurre lo “stigma della prostituzione”, ovvero quell’insieme di opinioni, comportamenti, leggi che isolano, discriminano e puniscono chiunque scambi il proprio sex work in maniera esplicita contro denaro. Come affermato fin dagli anni Ottanta dalle organizzazioni delle-dei sex workers (in Italia dal Comitato per i Diritti Civili delle Prostitute), e come ormai ampiamente documentato dalla ricerca (si vedano ad esempio i molti lavori dell’antropologa Laura Agustín), le forme di questo scambio sono molte e diverse per regole e organizzazione, così come diversi sono i servizi offerti, che possono andare dai più “normali” ai più “creativi”. Prostituzione di strada, escorting, lavoro in appartamento sono solo alcuni esempi. A seconda dei valori che ci sono più cari, tenderemo a condannare alcune forme e forse non altre. Per esempio, chi tiene al molto citato “decoro” potrebbe essere felice di vedere criminalizzate (ed espulse se straniere) le donne e le trans che lavorano in strada, come prevede il disegno di legge Carfagna, e come già fanno negli ultimi anni molte amministrazioni comunali di destra e di sinistra. Preferirà l’idea di pratiche discrete e luoghi nascosti. Preferirà però per lo più non parlare seriamente di chi, come tutte le lavoratrici del sesso in Italia (comprese quelle che lavorano con clienti ricchi), può sì in teoria lavorare (se è di cittadinanza europea), ma in compenso è resa invisibile nel dibattito pubblico, non è credibile di fronte alle autorità di polizia e giudiziarie, è punibile se lavora con altre colleghe, se si fa pubblicità, se impiega una segretaria, è sfrattabile se lavora in una casa che affitta, è ricattabile se ha anche un altro mestiere, è costretta a una vita di sotterfugi e bugie se vuole evitare che le siano tolti i figli, o il suo compagno arrestato. E la lista non è affatto completa.
Chi invece ha a cuore i diritti delle donne, concetto altrettanto mobilitato in questi giorni, condannerà le politiche di pulizia, perché è noto che non fanno che aumentare l’invisibilità dello sfruttamento (e del lavoro forzato), la debolezza contrattuale delle lavoratrici, il potere del racket. Eppure forse non saprà bene cosa pensare della prostituzione in altri luoghi, perché il dibattito in Italia su questo è spesso confuso.
Per creare chiarezza, può non essere inutile ricordare qualche elemento di ordine materiale. Con la legge Merlin (1958, ancora vigente) chiusero le cosiddette “case chiuse”, strutture statali variegate che garantivano agli uomini di tutte le classi socio-economiche l’accesso a servizi sessuali ben organizzati e legali. Finì così la vergogna di lavoratrici prive dei diritti fondamentali, quali il voto o la possibilità di cambiare lavoro o anche solo luogo di lavoro, e dei diritti specifici del mestiere, come dire di no a un particolare cliente o atto sessuale. Finì il monopolio dello Stato, per cui ogni forma di scambio prostituzionale al di fuori delle case chiuse era perseguibile. Da allora, si è aperta un’epoca di maggiore potere per le molte donne (e poi, sempre più a partire dagli anni Settanta, anche trans e uomini) che si trovano a fornire servizi sessuali agli uomini in maniera così netta, trasparente e negoziata da non rientrare nella categoria (oggi più legittimata?) di “amante” o “protetta”. Sono loro le “prostitute” nel senso più neutro e corretto del termine: per una prestazione negoziata e definita chiedono una retribuzione anticipata, in denaro o beni materiali, ma in ogni caso non una promessa di “favori” e “appoggi”. Per questo la legge punisce e la società isola, come invece non fa con lo scambio di “favori” e “appoggi” contro sesso. Questo tipo di lavoro è spesso, per chi lo fa, la migliore delle opzioni disponibili in campo lavorativo, date le proprie aspirazioni.
Se non siamo disposti a considerare “vittime” o “incoscienti” centinaia di migliaia di donne, e se non siamo disposti a condannare le aspirazione di autonomia economica, di studio e di carriera delle donne, allora il problema politico della prostituzione, dal punto di vista dei diritti delle donne potrebbe essere solo quello della sua criminalizzazione, e delle poche altre opzioni per raggiungere queste aspirazioni – tra le quali si trovano il diventare “amante” o “protetta”. In ogni caso, acquistare servizi sessuali da una lavoratrice del sesso in maniera rispettosa e corretta, come risulta che sia nella grande maggioranza dei casi, non può essere assimilato al modo in cui in Italia politici, capi, professori, parenti ottengono sesso offrendo, o a volte solo promettendo, cariche, favori, contratti, esami o sostegno familiare.
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