Un contributo di Paola Bora, docente del dipartimento di Storia e Filosofia dell’Università di Pisa, in vista della manifestazione del 13 febbraio che vedrà scendere in piazza anche a Pisa donne e uomini dopo l’appello lanciato a livello nazionale con il titolo “Se non ora, quando?”
Se non ora, quando? Il detto è noto attraverso Primo Levi, ma non altrettanto noto è il suo contesto originario. Questo mi è stato chiarito da un caro amico nella risposta al mio messaggio che lo informava della manifestazione indetta anche a Pisa per il 13 febbraio alle 15 in Banchi, con un documento lanciato a livello nazionale con il titolo appunto Se non ora, quando? Il detto si trova in un passo del trattato “Le massime dei padri”, che è uno dei trattati della Mishnà (base – risalente alla fine del I sec. – del Talmud).
Questa domanda e le due che la precedono stanno tutte, in ebraico, in poche sillabe, la cui traduzione in italiano suona all’incirca così: “”Se non (ci sono) io per me, chi (ci sarà) per me? E se io (ci sono) per me soltanto, che cosa (sono) io? E se non ora, quando?”. Vale a dire, interpretando, che l’azione tempestiva, sollecitata dalla terza domanda, presuppone due cose, cioè (in quest’ordine) l’autonomia, sollecitata dalla prima domanda (devo innanzi tutto prendermi cura ed essere responsabile di me stesso in prima persona) e la solidarietà, sollecitata dalla seconda domanda (se mi prendo cura di me soltanto, sono poca cosa). Responsabilità della propria autonomia e solidarietà, fondamenti dell’etica ebraica, sono quanto mai attuali, anche proprio da un punto di vista «femminista».
E sono preziose per illuminare il senso e la portata della manifestazione promossa dalle donne che si terrà in tutta Italia in 13 febbraio e che suscita, anche fra le donne stesse, dubbi o riserve.
E’ possibile che l’imbarbarimento che ha prodotto la confusione tra politica e spettacolo, tra stile di vita personale e ruolo pubblico abbia trovato nella boccaccesca scenografia dei passatempi del premier, ampiamente offerti dai media in una oscillazione ambigua tra sdegno e voyeurismo, l’occasione per un fronte comune trasversale a tutte le forze politiche, a donne e uomini.
Se ammettiamo che, in questo momento di disordine politico e istituzionale, può essere stata questa la goccia finale che ha innescato una protesta corale e molteplice, qualche riflessione diventa opportuna e urgente.
C’è da augurarsi che le manifestazioni, che si terranno il 13 in tante piazze d’Italia, siano oltre che numerose e forti, anche l’avvio di una nuova consapevolezza e responsabilità di tutti gli attori della protesta.
Sulla mobilitazione di questi giorni non può e non deve essere inalberato il vessillo di una crociata contro il corruttore sessuale di minorenni, (e tanto meno contro le giovani donne implicate nella vicenda, contrapposte alle donne “reali”, “che non sono né veline né escort” ) e nemmeno – ed è questa la seconda riflessione – il sospetto imprimatur di una “rivolta” delle donne contro il potere che le ha tenute storicamente in una condizione di marginalità ed esclusione.
E non possiamo considerare una vera vittoria, qualora riuscisse, sfrattare il Presidente del Consiglio perché accusato di prostituzione e corruzione, quando da tempo altre grandi e solide ragioni sociali, politiche e di democrazia premono per mandarlo a casa.
Il più grande errore sarebbe quello di scivolare nella tentazione populista di individuare obiettivi e modalità connotati da moralismo ipocrita. Con il pericolo oltretutto di restare invischiati dentro quella personalizzazione della politica che costituisce lo zoccolo duro del successo di Berlusconi.
E vengo al secondo punto: a leggere molti commenti di questi giorni e considerazioni di autorevoli leader politici sulla manifestazione, potrebbe venire il sospetto che delle donne ci si preoccupi quasi sempre solo quando servono.
Mai come oggi i rapporti tra i sessi sono il cuore della politica. Ma lo sdegno non può limitarsi alla stigmatizzazione dei comportamenti da basso impero del premier. Esso, per essere credibile, deve estendersi a tutti gli aspetti del dominio maschile e della violenza con cui si perpetua: da quella manifesta degli stupri e dei quotidiani omicidi domestici a quella violenza di ordine simbolico che si esercita in maniera subdola e soft, nell’eterna e “naturale” disuguale divisione del lavoro familiare e di cura, nelle discriminazioni sul lavoro, di opportunità, di retribuzione, di carriera, nella produzione di una cultura mediatica e visiva pervasa di corpi femminili plastificati, oggetti di consumo di un godimento maschile seriale.
Il genere viene costruito anche dai media e dalle immagini femminili che essi veicolano e quella fiction, che produce effetti di realtà, ha un forte potere di colonizzazione dell’immaginario e delle aspirazioni femminili.
L’intreccio di sessualità e economia è stato da sempre, come ha mostrato Paola Tabet, nel libro La grande beffa, un aspetto centrale dei rapporti di potere tra uomini e donne. Il suo inaspettato assurgere alla ribalta della cronaca, permette certo di imporre al dibattito politico una verità da sempre occultata, ma per altro verso impedisce che se ne vedano le implicazioni generali riguardanti il rapporto tra i sessi e non solo i costumi sessuali del sultano. Usato come arma di scontro all’interno di lotte di potere, lo scambio tra sesso, denaro, carriere, stenta ad assumere la politicità che gli è propria. Così per la “mercificazione del corpo femminile”, altra evidenza rimasta a lungo invisibile e muta. Perché tanto parlarne all’improvviso solo ora? E il modo con cui se ne sta discutendo ci aiuta effettivamente a sottrarre al silenzio cui è stata consegnata la “naturalizzazione” del dominio maschile sulla vita intera della donna, elemento generale di cui la mercificazione è solo una componente?
Di questi aspetti cruciali e non rinviabili siamo responsabili oggi donne e uomini se vogliamo dare alla presa di parola una forza più duratura dell’indignazione.
Solo la cultura prodotta dal movimento delle donne, in un paese dove il rapporto tra i sessi non è mai stato tra le questioni essenziali della politica, può svincolare lo scambio sesso e denaro dall’eccezionalità di una vicenda abnorme e contingente del potere pubblico, e farne l’elemento di consapevolezza centrale di una assunzione di responsabilità comune del cambiamento che si vuole innescare.
Su questo le donne chiamano oggi gli uomini, per voltare pagina molto oltre lo spazio e il tempo dell’indignazione.
Paola Bora, docente del Dipartimento di Filosofia dell’Università di Pisa
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