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SENZA STUPORE: ECCEZIONE E NORMA AI TEMPI DI ARCORE

«Lo stupore perché le cose che noi viviamo sono “ancora” possibili nel ventesimo secolo non è filosofico. Non sta all’inizio di alcuna conoscenza, se non di questa: che l’idea di storia da cui deriva non è sostenibile».
Walter Benjamin, 1940.
Con queste parole, Walter Benjamin impartiva una lezione di metodo critico che continua a valere: quando di fronte ad accadimenti politici ci si appella all’eccezione – oppure ci si indigna denunciando un regresso rispetto a una presunta norma di civiltà – ciò significa semplicemente che non si è capito nulla o non abbastanza, che non si dispone di strumenti adatti a comprendere il proprio tempo. A partire da questa considerazione – assunta come strategia metodologica – è possibile costruire una riflessione sugli scandali sessuali che hanno scosso la cronaca italiana delle ultime settimane, cercando di sottrarsi sia alla trappola del cinismo che a quella del moralismo.
«Lo stupore non è filosofico». In prima istanza, la massima suggerisce di sgomberare il campo dalle posizioni che – se pur in modi e con intenti differenti – considerano l’accaduto una deviazione rispetto alla regola dell’esercizio del potere, il risultato scabroso di vizi e perversioni private da cui difendere il corpo sano della democrazia. Questa, come si evince dai maggiori quotidiani nazionali, è l’opinione dominante nella sinistra istituzionale, condivisa anche da molti cittadini italiani e fondata su una sorta di soglia etica minima, equiparabile al buonsenso. I comportamenti del premier – si legge nei vari editoriali e appelli – offendono la dignità delle donne e della democrazia. Da questo teorema, piuttosto riduttivo, deriva un sentimento diffuso d’indignazione, una pratica collettiva di sdegno morale che tuttavia non tarda a mostrare inclinazioni ambigue e politicamente inconseguenti, quando non pericolose.

Dietro l’indignazione, infatti, si nascondono spesso voyerismo, moralismo e sessismo. Quest’ultimo, in particolare, sembra un vizio da cui il discorso pubblico italiano fatica a liberarsi al punto che, a volte, i commenti superano ampiamente i fatti. Quale dinamica perversa regge infatti la logica secondo cui l’esistenza comprovata di uomini spregevoli (ottuagenari arrapati che bramano minorenni) combinata all’esistenza di donne spregiudicate (giovani che si vendono a ottuagenari per realizzare ambizioni personali) spinge un intero paese a cercare di dimostrare che esistono anche “altre” donne? Perché l’attestazione di soggettività sembra così facilmente revocabile a un genere in quanto tale (che per inciso rappresenta più della metà della popolazione mondiale) non appena qualche appartenente al genere stesso smentisce/trasgredisce il ruolo della donna “per bene”, lasciando così emergere tutte le contraddizioni che covano nella doppiezza della morale pubblica italiana?
E perché tante sentono improvvisamente di doversi mostrare intelligenti, di dover provare al pubblico e alla società di essere diverse? Si è letto forse qualche editoriale cimentarsi nella costruzione di sillogismi sbilenchi volti a dimostrare l’ovvio, ovvero che sebbene Berlusconi sia un uomo, ciò non implica che tutti gli uomini siano Berlusconi? Si è forse suggerito ai giovani italiani di pensare ad Albert Einstein, nel caso l’esistenza di uomini gretti li avesse fatti dubitare della loro identità? E perché allora l’esistenza di Marie Curie o di altre donne eccezionali dovrebbe far espiare il fatto che qualcuna mercifica la propria esistenza per brama di potere? Perché ancora una volta l’identità delle donne viene ricondotta ai due archetipi – la puttana e la santa – incarnati di volta in volta da figure reali differenti?
Se il paradigma dello scandalo nasconde queste e altre trappole, può forse essere utile capovolgerlo, individuando, nell’eccezione, la norma. Non la normalità, come potrebbe intenderla il cinico e disilluso che bacchetta il moralista, ma la regola di una concezione della sovranità.
Se, infatti, lo scandalo consiste nel tradimento di un modello preciso del potere sovrano che si presumeva assodato, potrebbe darsi il caso, contrario, per cui gli avvenimenti recenti – non più scandalosi, ma per questo non meno scabrosi – esplicitino la natura di una figura sovrana diversa e inattesa. L’indecenza sostituisce la decenza. Il vizio privato prende il posto delle virtù tradizionalmente richieste all’uomo pubblico (decoro, dignità, rettitudine, etc…). L’abuso reale del mandato democratico rimpiazza la sua teorizzazione e concezione moderna.
Quando ciò accade, il potere si mostra in veste “ubuizzata”, grottesca e paradossale, ma non meno autoritaria. Berlusconi incarna perfettamente questa forma della sovranità, che mentre fa spregio delle regole in nome della libertà (parola d’ordine del suo “popolo”), attua una politica di esaurimento materiale delle possibilità di autodeterminazione dei soggetti.
Le giovani donne che oggi si autoprostituiscono alla corte di Arcore possono allora essere considerate una sorta di realizzazione perfetta del modello lavorativo/esistenziale che ogni giorno è imposto a un’intera generazione.
L’affermazione non è da intendere in senso metaforico – secondo la massima cinica per cui tutti ci prostituiamo in un modo o nell’altro per un poco di denaro – ma in senso più specifico e preciso. In primo luogo in quanto il lavoro – e in primis quello femminile – si svolge oggi in un contesto prostituzionale allargato in cui il corpo (o parti di esso) è sempre considerato merce di scambio potenziale. Spesso in forma erotizzata – come nel settore commerciale, dove la donna è sempre portatrice di un valore aggiunto che transita da lei all’oggetto – ma non necessariamente. Si pensi ad esempio al lavoro di cura e al suo sfruttamento più radicale incarnato nella figura della badante, a cui il corpo viene letteralmente sottratto per farsi oggetto di lavoro: a essere venduto non è solo il tempo, ma sono anche la giovinezza, la forza, la salute.
Solo una morale doppia, professata in malafede, può reputare scandalosa la vendita del corpo, mentre accetta senza battere ciglio un modello produttivo che non può farne a meno. E proprio l’incapacità di tematizzare le contraddizioni sul piano politico costringe il dibattito in un moralismo chiassoso ma innocuo, capace di imputare responsabilità soltanto ad una società dello spettacolo fluida e post-moderna. Senza negare il ruolo che massmedia e stereotipi svolgono nella formazione degli immaginari collettivi, appare tuttavia importante sottolineare come il modello auto-imprenditoriale non costituisca soltanto un miraggio televisivo, ma l’ideologia che regola le scelte del governo in materia di welfare e lavoro.
Il Libro bianco del ministro Sacconi, infatti, propina a ogni cittadino un modello reddituale basato su una regola banale: più ci si inventa, si è versatili e intraprendenti, più strada è possibile compiere. Ovvero: le condizioni di vita materiale dipendono dall’impegno soggettivo del singolo, indifferentemente dalle condizioni di partenza e dalle possibilità di accesso al reddito. In questo quadro, che rimuove completamente ogni asimmetria di potere tra i soggetti sociali, le ragazze di Arcore non rappresentano un’eccezione rispetto a una gioventù sana, ma semplicemente una parte di essa che applica le regole del Ministro alla lettera: auto-imprenditoria e rimozione dei rapporti di potere.
Non appena si lascia il terreno dell’indignazione, ci si sottrae alla dicotomia «donne per bene» e «donne per male». Non appena si smette di provare stupore, per analizzare e provare a capire, i problemi prendono forma. Ci si lasciano alle spalle cinismo e moralismo. La si fa finita con la cronaca e con gli scoop. E l’eccesso diviene semplicemente una figura di verità che illumina il potere, le sue forme e le sue manifestazioni.
A chi dunque, sconcertato e stupito, si chieda dove siano le donne di questo paese non risponderemo impersonando l’immagine di “ragazze per bene” contrapposte alle presunte “ragazze per male” o dibattendoci per mostrare un’intelligenza e una forza che sappiamo di possedere. Risponderemo piuttosto che ci troviamo nei luoghi in cui quotidianamente si giocano i conflitti reali di questo paese, dove si costruiscono le condizioni del nostro essere e divenire donne. «Dove siete ragazze?», titolava qualche giorno fa un editoriale firmato da Concita De Gregorio.
Ebbene eccoci: nelle lotte contro il modello di welfare alla Sacconi che ci vuole auto-imprenditrici anziché soggetti attivi entro relazioni materiali ben definite; nelle lotte universitarie contro una riforma che dietro lo slogan meritocratico nasconde l’umiliazione dei saperi e l’addomesticamento alla precarietà; nelle lotte di autodeterminazione – come quella piemontese contro la delibera Ferrero – contro chi pretende di espropriarci della libertà di scelta sulle nostre vite; nelle lotte per il territorio – ad esempio quella notav – perché nelle lotte popolari di resistenza sappiamo immaginare un’alternativa allo sviluppo predatorio e parassitario del tardo capitalismo; nelle lotte antirazziste, perché non vogliamo che la presunta difesa dei nostri corpi, in nome della quale si legittima ogni ideologia securitaria, sia l’alibi dietro cui nascondersi per non affrontare la verità, senz’altro meno rassicurante, che la maggior parte delle violenze sulle donne avviene per mano del partner o ex, familiari, o conoscenti.
La domanda corretta per noi è questa: “Dove siete voi, giornalisti e intellettuali?” È l’ultima chance che avete per riconoscere l’unica promessa di futuro che cova in questo paese e iniziare a raccontarne le battaglie, a capirne la passione e le ragioni. Potreste contribuire a ingrandirle, anziché soffocarle con il chiacchiericcio dei vostri salotti, dove, di certo, non ci troverete.
Laboratorio Sguardi sui generis, Torino.

Posted in Femminismi, Pensatoio.



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