di ALESSANDRA GRIBALDO e GIOVANNA ZAPPERI
Condividiamo la rabbia e la frustrazione di tutte coloro che si sentono offese dal comportamento del presidente del consiglio italiano. Ma non siamo stupite, perché negli scenari sessuali che stanno emergendo dalle indagini del cosiddetto caso Ruby (forse meglio sarebbe chiamarlo caso Silvio) non c’è niente di veramente sorprendente. Siamo cresciute con l’immagine onnipresente di infermiere e poliziotte più o meno discinte che popolano le televisioni italiane, riflesso di fantasie erotiche forse banali e vagamente patetiche, ma senz’altro condivise, riflesso di un’immagine femminile pre-liberazione sessuale forgiata in un contesto storico di estrema polarizzazione della differenza di genere. Un immaginario che corrisponde forse a quella generazione di settantenni passati indenni attraverso la rivoluzione sessuale degli anni sessanta e settanta, ma che difficilmente può essere condiviso dalle tante giovani a cui è imposto di identificarsi con quei modelli.
In questo contesto, va anche ricordato e ripetuto che l’erotizzazione dei rapporti di potere non è un imbarazzante fenomeno laterale del suo esercizio, ma sua vera e propria fondazione rimossa e in quanto tale da tenere nascosta. La visibilità dello scambio sesso-potere non fa che indebolire il potere, come appare chiaramente da qualche mese a questa parte.
C’è un dettaglio in questa storia che forse non tutte hanno notato, ma che ci sembra rivelare aspetti che riguardano non soltanto la questione del genere e dei suoi immaginari, ma anche quella della classe. Per difendersi dall’accusa di riservare posti e poltrone alle giovani frequentatrici della sua dimora, Berlusconi invoca con insistenza il fatto che queste ragazze sono tutte laureate (anzi, laureatissime!). Questo lo fa apparire ridicolo, come se lui stesso pensasse che la laurea possa ancora ritenersi un vettore di mobilità sociale in un contesto in cui l’istruzione superiore è sempre meno riconosciuta nell’ambito del mercato del lavoro, anzi rappresenta in molti casi un elemento decisivo di sfruttamento per la nuova classe del precariato cognitivo. Invocare la laurea come legittimazione e segno di elitismo è anch’essa una fantasia che rimanda ad un’epoca in cui effettivamente essere laureati apriva le porte dell’ascesa sociale. Ma tutto questo è ormai alle nostre spalle. La composizione di classe delle ospiti presidenziali è in realtà ben più variegata e mostra come le linee di demarcazione tra lavoratrici del sesso, laureate e giovani migranti, aspiranti ballerine o presentatrici televisive siano quanto mai instabili. Unite da una condivisa condizione di precarietà, queste giovani donne non esitano a buttarsi in quella sorta di estenuante circo notturno in cambio di denaro, motivate dal desiderio di accedere ad una vita migliore.
Essere “disposte a tutto”, come viene spesso sottolineato, riflette come queste donne si muovano in un contesto di sproporzione di potere. La loro condizione di ricattabilità e le loro aspirazioni frustrate vengono in parte, e solo in alcuni casi, lenite attraverso favori e pagamenti ottenuti spesso con il ricatto che esse stesse esercitano. Ed è forse questo l’aspetto che suscita più clamore, quello di una giovane migrante, per definizione la categoria più debole ed esposta alle vessazioni, che riesce a negoziare una frazione di potere ricattando l’uomo più potente del paese.
L’altro elemento che ci sembra centrale per interpretare tutta questa vicenda è quello della frattura generazionale. Non ci riferiamo tanto allo stereotipo del vecchio patriarca circondato da giovani donne accondiscendenti e retribuite. Anche questa è una storia vecchia. Ci riferiamo ai processi di identificazione e alle modalità di accesso al reddito che vengono proposte, in modo sempre più esplicito, a tutta una generazione di giovani donne. La normalità di un’esistenza femminile fatta di “lavoro onesto, di famiglia e di maternità”, così spesso invocata in editoriali e prese di posizione di autorevoli figure femminili, nel contesto dell’Italia attuale non può essere letta che in termini esclusivi in quanto appannaggio di donne bianche appartenenti ad un ceto medio-alto. Quel modello di normalità ci pone anche e soprattutto di fronte ad una frattura generazionale, per cui l’accesso a quella normalità riguarda prevalentemente una generazione di donne diventate adulte in una diversa congiuntura storica. In questo senso le profonde differenze di opportunità tra donne appaiono come l’elemento rimosso, il non detto nascosto dietro all’immagine del vecchio patriarca che sfrutta la forza-lavoro sessuale a sua disposizione.
Il femminile declinato sulle linee della classe, dell’etnicità e della sessualità, da affermare come antidoto alla deriva sessista è un modello che molte di noi contestano. Non soltanto perché esclusivo, ma anche perché normalizzato nella triade lavoro-famiglia-maternità che non tiene conto della molteplicità delle soggettività e dei desideri femminili. Nuove generazioni di donne esprimono insofferenza nei confronti di un modello normativo di genere che impone alle donne stereotipi stantii e perbenisti e di un modello di famiglia in cui il ruolo femminile è messo sotto tensione da pressioni e ritmi di lavoro postfordisti nonché dalla sproporzione di peso del lavoro riproduttivo tra generi, che in Italia è rimasta sempre uguale a se stessa nei decenni.
La rivendicazione dello scambio sessuo-economico emerge, da una parte, come unico spazio di emancipazione che può solo adeguarsi alla sproporzione di potere che ne sta alla base, dall’altra rende manifesta una condizione: in fondo lo scandalo sta proprio nell’”eccedenza”, nell’aver reso manifesta la pornografia di un sistema.
Confrontarsi con lo stereotipo della velina e con l’immagine disturbante del suo asservimento sessuale, dovrebbe dunque spingerci a sollevare una serie di problemi che riguardano le trasformazioni in atto nei modelli culturali e di genere, e il modo in cui esse si intrecciano con l’emergenza di una classe di giovani lavoratrici precarie.
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